La Corte Europea condanna l’Italia perché sono stati “violati i diritti della difesa […]la ricorrente non ha beneficiato di un’indagine che potesse chiarire i fatti e le eventuali responsabilità nel suo caso”.
LA VICENDA PROCESSUALE
Amanda Knox all’epoca dei fatti aveva 20 anni e si trovava in Italia, a Perugia, per ragioni di studio.
Il 2 novembre 2007 la polizia veniva chiamata da Raffaele Sollecito, fidanzato della Knox, perché nel farle visita trovava la finestra rotta e tracce di sangue nell’appartamento della ragazza. La polizia, giunta sul posto, forzava la porta della camera da letto della coinquilina della Knox, Meredith Kercher, e trovava il corpo privo di vita. Nell’appartamento venivano trovate tracce di violenza sessuale.
Il 6 novembre Amanda Knox veniva interrogata dagli agenti di polizia (due volte: all’1.45 a.m. e alle 5.45 a.m.) e indicava, quale responsabile dell’omicidio, Patrik Dija Lumumba, proprietario del locale dove lavorava.
La Procura ordinava così l’arresto di Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrik Dija Lumumba per l’omicidio della Kercher. Poco dopo Lumumba veniva scarcerato perché risultato estraneo ai fatti e, nel maggio 2008, la Knox veniva accusata di calunnia nei suoi confronti.
Il 5 dicembre 2009 la Corte d’Assise di Perugia condannava Amanda Knox e il fidanzato Raffaele Sollecito in primo grado per la violenza sessuale e l’omicidio di Meredith Kercher.
La Knox veniva inoltre condannata per calunnia nei confronti di Lumumba.
Il 3 ottobre 2011 la Corte d’Assise d’appello assolveva e scarcerava i presunti coautori del delitto per non avere commesso il fatto (relativamente all’omicidio), mentre per Amanda Knox veniva confermata la condanna a tre anni per calunnia.
Il 26 marzo 2013 la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato della Procura Generale di Perugia, annullava la sentenza assolutoria d’appello e rinviava gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze.
Il 30 gennaio 2014 la Corte d’Assise d’Appello di Firenze sanciva nuovamente la colpevolezza degli imputati e condannava Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi di reclusione.
Il 27 marzo 2015 la Corte suprema di cassazione annullava senza rinvio le condanne a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, assolvendoli per non aver commesso il fatto, ponendo così fine al caso giudiziario.
Per l’omicidio è stato condannato in via definitiva con rito abbreviato il cittadino ivoriano Rudy Guede, un conoscente di Meredith Kercher, come unico responsabile.
Il caso è finito anche davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
LA DECISIONE DELLA CORTE
La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, chiamata a valutare le possibili violazioni della Convenzione Europea dei Diritti Umani nel processo Knox, ha stabilito che:
– è stato violato l’art. 3 della Convenzione “Proibizione della tortura” in relazione al diritto della Knox ad indagini processuali corrette. La Corte Edu ha condannato l’Italia dal punto di vista procedurale per mancata inchiesta effettiva mentre ha ritenuto insufficienti le prove per accertarne la violazione in senso sostanziale.
– è stato violato l’art. 6 par. 1 e 3 “Diritto ad un equo processo” in relazione al diritto ad una giusta tutela legale e all’assistenza di un interprete. La Corte Edu ha invece escluso la presunta violazione del diritto ad essere informati prontamente delle accuse mosse a proprio carico.
LE MOTIVAZIONI
Sulla violazione del diritto ad indagini corrette (art. 3).
La Corte ha riscontrato che non è stato garantito ad Amanda Knox il diritto ad indagini idonea a far chiarezza sul fatto e sulle possibili responsabilità implicate. Gli interrogatori di Amanda Knox si sono svolto in un clima di paura e angoscia e gli agenti non hanno tenuto in considerazione lo stato di shock e confusione denunciato dalla ragazza in cui la stessa versava.
Sulla violazione del diritto ad una giusta tutela legale (art. 6 par. 1 e 3).
La Corte ha accertato che la Knox non è stata assistita da un legale negli interrogatori del 6 novembre 2007 sebbene fosse già stata penalmente accusata secondo i criteri della Convenzione.
Questo ha compromesso sin da principio l’equità del processo e il suo diritto alla difesa.
Prova ne sono le plurime versioni dei fatti, così come raccontati prima dalla stessa durante gli interrogatori, poi nelle due lettere consegnate agli agenti, scritte una di suo pugno e l’altra dal suo avvocato il 9 novembre. Nonché i racconti fatti alla madre nella telefonata registrata del 10 novembre 2010.
Le dichiarazioni della Knox decisive ai fini processuali sono state peraltro verbalizzate come “spontanee”, ma il mancato accertamento delle modalità di conduzione dell’interrogatorio dovrebbe impedire di poter qualificare le dichiarazioni rese dalla ricorrente come spontanee, nozione che presuppone l’assenza di coercizioni di sorta.
Sulla violazione del diritto all’assistenza di un interprete (art. 6 par. 1 e 3).
Le autorità hanno fallito nel presentare alla Knox la figura dell’interprete che, proponendosi come mediatore, ha tenuto nei confronti dell’indagata un atteggiamento materno non consono alle circostanze.
L’interprete fornito, difatti, non si era limitato ad eseguire l’incarico conferito, ma aveva svolto una indebita attività di “mediazione”, elemento che sebbene portato ripetutamente all’attenzione delle autorità nazionali non è stato oggetto di approfondimenti.
Questo atteggiamento ha certamente avuto un impatto sul procedimento a carico della Knox compromettendo sin da principio l’equità dell’intera procedura.
Per questi motivi, la Corte ha condannato l’Italia al pagamento, a favore di Amanda Knox, della somma di 10.400 euro per il danno non patrimoniale e 8.000 per le spese del procedimento ei sensi dell’art. 41 della Convenzione.