La Corte Europea dei Diritti umani ha condannato l’Italia perché “non ha protetto i cittadini di Taranto dall’inquinamento” nelle aree interessate dalle emissioni tossiche dello stabilimento Ilva di Taranto. I giudici hanno stabilito che le misure per assicurare la protezione della salute e dell’ambiente devono essere messe in atto il più rapidamente possibile.

LA VICENDA PROCESSUALE

La società Ilva S.p.a., specializzata nella produzione e lavorazione dell’acciaio, iniziò ad operare nel settore siderurgico agli inizi del XX secolo. Nel 2005, l’intera produzione della zona a caldo di questo stabilimento fu trasferita a Taranto.

Lo stabilimento che si trova in questa città è il sito più importante della società e il più grande complesso industriale siderurgico d’Europa. Oggi si estende su una superficie di circa 1.500 ettari e conta circa undicimila dipendenti.

L’impatto delle emissioni prodotte dallo stabilimento sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale è stato oggetto di diversi rapporti scientifici. Il 30 novembre 1990, il Consiglio dei Ministri individuò i comuni «ad elevato rischio di crisi ambientale» (comuni di Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte) e chiese al Ministero dell’Ambiente di istituire un piano di disinquinamento per il risanamento del territorio.

A partire dalla fine del 2012, il governo ha adottato diversi testi, tra cui i decreti legge c.d. decreti legge «salva-Ilva», riguardanti l’attività della società Ilva. In applicazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017, il termine per l’esecuzione delle misure previste nel piano ambientale fu rinviato al mese di agosto 2023.

Con un ricorso volto all’annullamento e alla sospensione dell’esecuzione di questo decreto, la Regione Puglia e il Comune di Taranto denunciarono al TAR della Puglia le conseguenze ambientali e sanitarie della continua proroga dei termini per l’adempimento degli obblighi ambientali. Su questo argomento fu sollevata anche una questione di legittimità costituzionalità.

Nei confronti dei dirigenti dell’Ilva furono avviati diversi procedimenti penali per disastro ecologico, avvelenamento di sostanze alimentari, mancata prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro, danni al patrimonio pubblico, emissioni di sostanze inquinanti e inquinamento atmosferico. Alcuni di questi procedimenti hanno dato luogo a condanne nel 2002, 2005 e 2007.

Tra l’altro nel 2005, la Corte di Cassazione condannò i dirigenti dello stabilimento Ilva di Taranto per inquinamento atmosferico, scarico di materiali pericolosi ed emissioni di particolato, rilevando principalmente che la produzione di particolato era proseguita nonostante i numerosi accordi conclusi con le autorità territoriali nel 2003 e nel 2004.

Con sentenza del 31 marzo 2011, la CGUE dichiarò che l’Italia si era sottratta agli obblighi cui era tenuta in forza della direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla prevenzione e alla riduzione integrate dell’inquinamento.

La CGUE rilevò che l’Italia aveva omesso di adottare le misure necessarie che avrebbero permesso alle autorità competenti di controllare che gli impianti industriali esistenti funzionassero conformemente a un sistema di autorizzazioni previsto da questa stessa direttiva.

LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, chiamata a valutare le possibili violazioni della Convenzione Europea dei Diritti Umani nel processo Cordella e altri, ha stabilito che:

è stato violato l’art. 8 della Convenzione “Diritto al rispetto della vita privata e familiare” in quanto le autorità nazionali non sono state in grado di adottare le misure necessarie a ridurre in maniera efficace il livello di inquinamento a tutela del diritto alla salute ed alla vita privata dei ricorrenti;

è stato violato l’art. 13 “Diritto a un ricorso effettivo” : la autorità nazionali hanno omesso di prendere tutte le misure necessarie per garantire un’efficacie tutela del diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata.

non è stato violato l’art. 46 “Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”: la Corte ha ritenuto non fosse necessario adottare la procedura della sentenza pilota.

In effetti non spetta alla Corte rivolgere al Governo delle raccomandazioni dettagliate e a contenuto prescrittivo, come quelle indicate dai ricorrenti. Spetta al Comitato dei Ministri, che agisce ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, indicare al governo convenuto le misure che, in termini pratici, devono essere adottate da quest’ultimo per assicurare l’esecuzione di questa sentenza.

 LE MOTIVAZIONI

Sulla violazione del diritto alla vita privata e familiare (art. 8).

La Corte afferma che dei danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata.

La Corte ha ritenuto che una doglianza difendibile dal punto di vista dell’articolo 8 può sorgere se un rischio ecologico raggiunge un livello di gravità che riduce notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio o della propria vita privata o famigliare.

L’articolo 8 non si limita a ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze arbitrarie: a questo impegno negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata.

Sulla violazione del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13).

La Corte rammenta che l’articolo 13 della Convenzione garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso che permetta all’autorità nazionale competente di esaminare il contenuto di una «doglianza difendibile» fondata sulla Convenzione.

Lo scopo di tale articolo è fornire un mezzo attraverso il quale le persone sottoposte alla giustizia possono ottenere, a livello nazionale, la riparazione delle violazioni dei loro diritti sanciti dalla Convenzione, prima di dover mettere in atto il meccanismo internazionale di ricorso dinanzi alla Corte.

Avuto riguardo alle conclusioni alle quali è giunta circa l’esistenza di vie di ricorso utili ed effettive che permettano di sollevare, dinanzi alle autorità nazionali, delle doglianze relative all’impossibilità di ottenere misure che garantiscano il disinquinamento delle aree interessate da emissioni nocive dello stabilimento Ilva, la Corte ritiene doversi concludere che vi è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione nel caso di specie.

La Corte, riconosciuto che la constatazione della violazione di per sé equivale a una sufficiente soddisfazione del danno non patrimoniale subito dai ricorrenti, ha condannato l’Italia al pagamento, a favore di ciascuno essi, della somma di 5.000 euro per le spese del procedimento ei sensi dell’art. 41 della Convenzione.